martedì 21 giugno 2011

L'arte ti rende libero. Ma non troppo. Il caso del Pigneto

25 aprile 2011. 
Siamo a Roma nel quartiere del Pigneto e da lontano si vede una folla che sovrasta il ponte della ferrovia. Una manifestazione spontanea per ricordare la festa della liberazione? Non si tratta di questo. Se guardi bene in alto potrai scorgere un’istallazione di circa 4 metri completamente in metallo. Ma solo se sei arrivato prima delle 11, altrimenti troverai semplicemente dei poliziotti e una folla alla ricerca del fascista. Ma qual è il motivo di tanta indignazione che porta i telegiornali ad aprire le edizioni dell’ora di pranzo con questa notizia? 

Foto: Jessica Stewart
 
Chi ha avuto la fortuna di osservare questa istallazione con occhi limpidi, non ingannati dalle dicerie altrui o dal moralismo della società italiana moderna, si sarebbe trovato di fronte ad una scritta che per senso e forma evoca quella che campeggiava all’ingresso dei campi di concentramento; ma in seguito, avrebbe scoperto una scritta in inglese, lingua notoriamente anti nazista, che aveva l’unico scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica verso temi sociali della nostra società. 
L’artista Rub Kandy, anche lui notoriamente non un simpatizzante dei movimenti di destra, ha avuto uno spunto artistico che negli ultimi tempi è raro vedere (a meno che non vogliamo far credere che le opere d’arte contemporanea possano essere degli atti così geniali). E’ così semplice nascondersi dentro una galleria d’arte protetti dai grandi, ma portare le idee e dare uno scossone forte in strada vuol dire essere geniali, vuol dire non avere paura delle conseguenze.
E’ stato additato come nostalgico neonazista, come ciarlatano, come artista dei poveri, gli è stato puntato il dito contro perché non all’altezza di qualsiasi altro artista in quanto precario. E’ stato accusato di ricercare pubblicità facile. Ma nessuno si è preoccupato di capire realmente cosa c’era dietro questo artista e quest’opera controversa.
Tutto questo senso di indignazione è stato provocato da chi aveva bisogno di un qualcosa a cui appigliarsi per far parlare di sé; in fondo cosa c’è di meglio di un estremista di destra con idee razziste che semina panico per Roma con un’installazione per mercificare tutta la storia e mandarla in pasto all’opinione pubblica? Sicuramente di meglio ci sarebbe stato un omicidio di una minorenne, ma in quel 25 aprile c’era solo questo ad aiutare.
Si sono affannati in tanti a giudicare questa azione, ma chi erano questi tanti? Sicuramente nessuno che poteva dire di aver vissuto in prima persona l’agonia e l’orrore dei campi di concentramento, ma giornalisti, critici d’arte o presunti tali, folle e gruppi di persone che, come sappiamo bene in Italia, cercano sempre un pretesto per infangare qualcuno, anche se quel qualcuno magari sta dalla loro parte.
Conosco personalmente l’artista, e potrei dire qualsiasi cosa di lui, descriverlo in tanti modi, ma mai come un estremista di destra. Anzi, potrebbe essere più quella persona che incontri accanto al tuo tavolo nel circolo sotto casa mentre ti lamenti del lavoro che non avrai mai o della situazione precaria dell’Italia.
Ed è da qui che nasce la sua avventura, perché un artista “fa da filtro e poi rigurgita”, ha il dovere di dire quello che succede attorno. E quando, tu che sei vicino a lui, ti lamenti di vivere in un ghetto, costretto a lavorare a volte si e a volte no, come decide la società, costretto a  rinunciare ad una casa oppure a scappare perché non accettato, allora l’artista capirà che la situazione è grave, che dove vivi non è una semplice città ma è una specie di lager, dove chi decide e chi comanda è chi ha il potere e noi possiamo stare solo zitti.
Non a caso, c’è voluto pochissimo per rimpiazzare la scritta “Work Will Make you Free” con un semplice striscione che protestava contro le morti sul lavoro. E quindi mi chiedo, se  realmente fosse stata fraintesa quest’opera, non sarebbe stato meglio issare una bandiera contro il razzismo? Perché parlare di lavoro e morti sul lavoro? Semplicemente perché sin dall’inizio chi ha visto l’opera ha capito di essere di fronte ad una protesta ed essendo arrivato in ritardo ha dovuto riparare all’errore gridando al lupo.
La verità è che “Work will make you free” non è assolutamente un’opera di stampo nazista partorita da una mente estrema di destra, ma una fotografia di uno spacco di civiltà moderna in un determinato luogo. E’ così facile dare un significato così semplicistico ad una cosa di questo impatto, è tipico di chi punta il dito ma poi non attualizza.
E’ l’ennesima dimostrazione della scarsa libertà di espressione e di parola che dovremmo avere dopo anni e anni di lotta.
Ma soprattutto la cosa che mi rende più sconcertata è aver parlato così tanto di un qualcosa che realmente non c’è senza dare risalto a chi ha messo in moto questa macchina. E quindi mi inferocisco di aver sprecato almeno più di un terzo del mio articolo a parlare di una cosa così futile e senza significato.
Ho visto cose peggiori protette da 4 mura e magari preferirei che i tanti critici si soffermassero a parlare del significato ignobile e incivile di tante altre opere.
A me invece lascio l’espressione totale dell’essere, dell’io e del mondo. Quindi non posso che alzare le mani davanti ad un artista che si occupa di arte da ancor prima che nascesse, che ha aiutato a far crescere un concetto di street art che vira verso il sociale.
Un artista a tutto tondo, precario o no, pur sempre un vero artista, molto di più di quanto possano esserlo altri.


Foto: Jessica Stewart

Articolo inedito "Work Will Make You Free"

In attesa dell'uscita dell'ultimo numero di Brek Magazine con un'intervista all'artista Mimmo Rubino, in arte Rub Kandy, che racconterà la sua arte e i suoi lavori, pubblico l'articolo inedito sul lavoro "Work Will Make You Free", lavoro che ha portato Mimmo sulle prime pagine di tutti i giornali nazionali.
Per motivi di spazio e di battute l'articolo, che uscirà sul magazine gratuito lucano in questi giorni, è stato tagliato e ha dato importanza principalmente ai lavori dell'artista.
Il prossimo post è l'articolo iniziale che racconta la storia dell'istallazione romana al Pigneto, quello che è successo dietro e quello che succederà.
Non perdetevelo.


venerdì 17 giugno 2011

I'm not a Fashion Victim.

In tempi non sospetti ho avuto il piacere di intervistare per Brek Magazine Aija Barzdina, una tra le più importanti modelle "plus size" e creatrice insieme ad altre colleghe del progetto "Curvy Can".



NEgli ultimi tempi si continua a parlare del pericolo dell'anoressia. Riviste patinate e case di moda alzano la voce contro i siti pro-ana (vedi al petizione di Vogue Italia), ma in realtà nessuno ha mai avuto il coraggio di fare realmente qualcosa.
E' certo che i disturbi alimentari non sono dovuti a motivi così frivoli ma è indubbio che tante delle ragazze che fanno diete o non mangiano lo fanno per sembrare più belle agli occhi della società.
Se la moda prima riuscisse a far capire che una taglia 38 non è la normalità e dopo iniziasse a creare abiti che hanno delle forme, potremmo iniziare a parlare di un vero cambiamento.
Aija Barzdina e le sue colleghe sono delle donne bellissime, in forma, curvose e toniche. Indossano una 44 o una 46, taglie normali per l'80% delle italiane ma totalmente fuori dal comune se parliamo di moda e star system.


Le ragazze "Curvy Can" ci spiegano che loro hanno lottato contro il sistema moda, perchè non sono vittime della moda e hanno avuto successo grazie a quello che sono.
Perché sono ragazze normali come noi. Come me. E io di certo non indosso una taglia 38.

L'intervista completa è disponibile al link http://www.brekmagazine.it/